Blog EllePì – Come aiutare le nuove generazioni e “bene comune”
Qualche spunto e una riflessione “dal campo”
di Angela Mary Pazzi
Nel contributo Chi ha l’autorità per giudicare le nuove generazioni di Gabriele Gabrielli, pubblicato in queste Discussioni, si introduce la questione complessa del “bene comune” e lancia un appello ad accogliere le nuove generazioni. La sua lettura mi suggerisce di proporre qualche lettura integrativa per approfondire la prima questione e una convinzione che ho maturato nelle aule confrontandomi con i miei studenti. Cominciamo dalla prima questione. Quale bene comune? Sono tanti gli appelli “alla opportunità di un cambiamento profondo” e alla promozione di nuovi sguardi che vedano nella crisi “l’occasione per invertire la rotta o per indirizzarla su un percorso sostenibile”. Ma il dibattito rischia di restare amputato in termini di cambiamento se non lo si apre (non deve infatti essere confinato alle sole accademie) e se non si farà chiarezza sul concetto di Bene comune.
Non è solo necessità di ordine lessicale perchè a una nuova prospettiva del Bene comune seguirà, necessariamente, un cambiamento dei problemi, dei testimoni credibili, dei contenuti, dei metodi e delle pratiche. Mi pare particolarmente illuminante su questo punto la riflessione proposta da Guido Viale:
<<Beni comuni e non Bene comune. E’ una distinzione importante: la dizione beni comuni fa riferimento a forme di gestione diverse tanto dall’appropriazione privata che dalla proprietà pubblica. Cioè a forme di gestione partecipata, le cui modalità si stanno delineando – e non potrebbero farlo in nessun altro modo – nel corso di mobilitazioni, di lotte, ma anche di iniziative molecolari e di incontri di studio, indipendentemente non solo dalle divergenze lessicali, ma anche da quelle ideologiche e dottrinarie, che sono per molti versi altrettanto irrilevanti; o quasi. […]Nel mondo di oggi un bene è comune non per natura, ma se, e solo se, è sottoposto a modalità di gestione che lo sottraggono a qualsiasi forma di appropriazione: tanto da parte di un’impresa (privata o pubblica), la cui logica è comunque il profitto, l’accumulazione del capitale, la crescita fine a se stessa; quanto da parte di una struttura pubblica, se questa esclude qualsiasi forma di condivisione della gestione – o per lo meno di controllo, a partire dalle regole elementari della trasparenza – o di coinvolgimento dei diversi destinatari dei suoi benefici (quello che economia e diritto chiamano “utilità”) e dei suoi costi (sociali, sanitari, ambientali: quelli che l’economia chiama “esternalità”)>>
Cercare un nuovo paradigma nei Beni comuni significa anche porsi un grande problema: quale nuovo sviluppo narrare? Su questo suggerisco la lettura de Il racconto dei beni comuni di Piero Bevilacqua di cui propongo un pezzo:
<<Nella seconda metà del novecento è fiorita una nuova storia, la grande narrazione dello sviluppo, in cui siamo in parte tutt’ora immersi. La crescita economica continua e la distribuzione della ricchezza a un numero crescente di cittadini ha reincarnato, in forme nuove e per alcuni decenni, la vecchia epica del progresso ottocentesco. Il movimento operaio e i partiti di sinistra hanno incarnato perfettamente questo nuovo immaginario, non meno di altre formazioni e gruppi moderati.[…] Negli ultimi 30 anni anche le élites della borghesia hanno sentito il bisogno, per dare corpo a una controffensiva capitalistica su larga scala, della narrazione neoliberista. Un romanzo di reincarnazione del progresso al cui centro si ergeva la libertà degli individui, l’eliminazione delle burocrazie, il premio al merito, il libero mercato come supremo ed equo regolatore delle relazioni sociali. Questa aura leggenda ha avuto una gigantesca capacità di fascinazione, al punto da riuscire a parassitizzare anche i vecchi partiti della sinistra. […]Ma proprio oggi, guardando alle parole, si può scorgere nitidamente la fine dell’ultimo grande racconto del capitalismo contemporaneo. Che cosa sanno prometterci oggi gli apologeti dello sviluppo? Privatizzazioni, liberalizzazioni, detassazioni, ecc. Ma quale futuro della nostra condizione possiamo intravedere dietro queste promesse? Quale pubblica felicità? Dopo trentanni di propaganda alla libertà degli individui il fantastico risultato è che le prossime generazioni vivranno peggio delle precedenti, i figli peggio dei padri. Per la prima volta nella storia contemporanea dell’Occidente in un racconto politico manca il lieto fine. Mentre le parole sono sempre le stesse, da trent’anni. E nel grande mare del libero mercato, dove tutto diviene rapidamente obsoleto, queste consunte parole sono ormai diventate rifiuti, come le merci del consumismo quotidiano. I beni comuni, è ormai divenuto chiaro, posseggono una straordinaria potenzialità di narrazione. Essi raccontano una storia secolare. L’avanzare dei modi di produzione capitalistici e il progressivo appropriarsi da parte dei privati delle terre, dei boschi, delle acque che prima appartenevano alle comunità. Tutta l’età contemporanea è una storia sempre più accelerata di predazioni private.>>
Vengo ora alla convinzione che mi sono fatta. La domanda è: come accogliere e aiutare le nuove generazioni?
Qui confesso che il mio disorientamento è totale. Riesco forse a dire con maggiore sicurezza cosa dovrei evitare da docente: la forsennata ricerca di modelli pedagogici da imitare, i luoghi della formazione consueti, la sicurezza cognitiva, gli approcci riduttivi, la direttività, la relazione gerarchica come unica strada, non dare speranza, etc. Potrei andare avanti ancora per molto, perché sono tutti aspetti su cui si è costruita la mia personale formazione e da cui difficilmente riuscirò a separarmi. Ma vista la forza e dimensioni della crisi, sono costretta ad uno sguardo meno settoriale. In questo mondo in cui la fiducia nelle Istituzioni dei giovani è crollata (cfr dati IARD), so con certezza che devo evitare di far credere ai giovani che sia sufficienterelazionarsi con chi svolge ruoli di potere istituzionale anche altissimi, fermandosi solo alleparole. Se vogliono un reale cambiamento, devono aderire alle Istituzioni non per quello che dicono, nelle rappresentazioni rituali, ma per quello che fanno per dare loro futuro, per ricostruire il tessuto sociale connettivo che può strappare dall’isolamento e dall’atomizzazione senza coartare la libertà e per la restituzione dei diritti.
Riferimenti
Bevilacqua P., “Il racconto dei ‘beni comuni’ dopo le grandi narrazioni della modernità“, 11 agosto 2011
Profilo dell’autore
Angela Mary Pazzi, docente di Filosofia e Sociologia presso l’IIS “Fazzini Mercantini”di Grottammare (AP). Laureata in Filosofia (Università di Bologna), specializzata in Metodologia della ricerca filosofica (Università di Padova) è stata supervisore per le attività di tirocinio presso la SSIS dell’Università di Macerata. Ha partecipato a diversi progetti di ricerca e sperimentazione. Ultime pubblicazioni: Alternanza studio-lavoro: percorsi operativi di orientamento fra istruzione e formazione, Armando 2005; Percorsi Sperimentali Integrati nei Licei, Professionalità, 2008 La Scuola; Scienziate in costruzione: pratiche di orientamento, differenze di genere e cultura scientifica (a cura di), PensaMultimedia 2010.