Blog EllePì – L’impresa come innovazione, accoglienza e restituzione

Sabato 3 dicembre abbiamo ricevuto il Premio Cultura e Impresa all’interno del Premio Letterario Nazionale Paolo Volponi. Un riconoscimento importante per tutti noi, che ci permette di fermarci e pensare alla strada percorsa, alla nostra visione e ai nostri valori, proiettandoci con sempre maggiore passione ed entusiasmo verso il futuro.

Un’intervista al Presidente Gabriele Gabrielli, a margine del prestigioso riconoscimento, per conoscere la Fondazione Lavoroperlapersona, la sua visione dell’impresa e della cultura ricordando Paolo Volponi e Adriano Olivetti.

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 Perché questo impegno della Fondazione Lavoroperlapersona. Da dove nasce questo progetto?

Ho maturato nel tempo l’idea che quest’epoca ci sta portando via il lavoro. Non solo perché non c’è, ma anche perché quando c’è viene svilito, reso non degno, ridotto a mezzo per consumare e non per realizzare la persona e l’umanità. Questo succede quando alla concezione dell’uomo accolto nella sua pienezza si sostituisce l’homo economicus che riduce a una sola dimensione la vita: performance e consumo. Uno slittamento di senso che è drammatico. Il lavoro però non è questo, il lavoro è espressione della persona e mezzo per servire gli altri.

Com’è potuto accadere?

Rispondere in poche battute è davvero impossibile, però noi siamo convinti che sia necessario rimettere mano ai fondamentali, recuperare il senso del lavoro e valorizzare la cultura del lavoro in un’epoca in cui è ridotto a merce, è frammentato e liquido. Una situazione che lascia immaginare anche una sua progressiva uscita di scena come componente dell’identità della persona. Per questo dobbiamo tornare a parlare di lavoro con i bambini, con gli adolescenti, con i giovani. Chi parla del lavoro come fattore di sviluppo dell’uomo e dell’umanità alle nuove generazioni? Chi parla del lavoro come atto creativo? Il rischio che stiamo correndo è che del lavoroperlapersona non ne parli più nessuno o che se ne parli solo come strumento di successo personale, economico per lo più, e mezzo per produrre profitto sganciato dai bisogni e dalla felicità.

Dietro questo ragionamento c’è forse una critica anche ai nuovi lavori della cosiddetta gig-economy?

La questione è molto complessa. Comincio subito con il dire che non dobbiamo demonizzare l’innovazione e la tecnologia. Sarebbe profondamente sbagliato. Il lavoro flessibile, agile, smart – ricorrendo alle terminologie in uso ancora non univoche – sono opportunità. È necessario però approfondire le implicazioni dell’innovazione e della trasformazione del lavoro sulla vita, sulla identità della persona e sulla sua soddisfazione. La trasformazione del lavoro va compresa anche con lenti diverse da quelle della legittima ricerca di efficienza e profitti; occorrono lenti multidisciplinari, quelle che ci domandano fin dove questa trasformazione sia compatibile con il lavoroperlapersona, che significa rispetto della dignità dell’uomo, lavoro decente e generativo. Nutro molti dubbi che si possano chiamare “lavoro” alcune “prestazioni” richieste dai nuovi modelli di business.

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Possiamo dire dunque che l’impegno della Fondazione è a tutto campo….

È proprio così, la nostra vocazione è al tempo stesso educativa, culturale e di ricerca e prende forma con l’ascolto, l’apertura, la contaminazione di saperi e delle culture. La preoccupazione che sta al fondo del nostro impegno è semplice. Non ci preoccupa soltanto la dimensione – purtroppo drammatica in questa fase – dell’uomo senza lavoro. Ci domandiamo piuttosto in che stato può ridursi l’uomo e l’umanità quando il lavoro non è per la persona, ma serve altri: serve il profitto soltanto, serve l’avidità, serve la speculazione allontanando il prodotto del lavoro dal suo creatore che per questo rimane smarrito e senza senso. Lavorare in questa direzione significa mettere al centro del nostro impegno anche la critica alla teoria dell’impresa ancora dominante, quella che pensa che l’impresa sia un progetto per pochi, orientata solo alla massimizzazione del profitto e del valore per gli azionisti, sia un fatto privato che non c’entri nulla con la polis e con la società civile, sia uno strumento per creare ricchezza – a tutti i costi e sopra tutto –  per pochi eletti. Insomma un’economia ingiusta, non attenta alla natura e all’ambiente, fondata su un capitalismo senza volto che ha dimenticato la ricerca del bene comune.

Cos’è dunque l’impresa?

Credo che l’impresa sia un dono e progetto per molti. Quando penso all’impresa e ai tanti imprenditori che l’hanno concepita come mezzo di ricerca del bene comune, mi viene in mente l’immagine di una tavola imbandita che tanti soggetti contribuiscono ad apparecchiare – imprenditori, management, collaboratori, territorio, comunità, famiglie – e che deve accogliere e ristorare molti. L’impresa ha una funzione sociale essenziale, l’impresa è innovazione, accoglienza e anche restituzione.

 Abbiamo chiamato in causa l’imprenditore e il suo ruolo. Un ruolo decisivo…

Direi insostituibile. Il lavoro infatti non cade dal cielo. Non è una risorsa naturale, ma è creazione umana e culturale. Nasce da una particolare vocazione che alcune persone hanno e che prende forma nell’impresa e nei mercati. Ecco perché bisogna sostenere con forza queste vocazioni, la vocazione imprenditoriale, sperando e contribuendo – ciascuno dall’ambito che gli è proprio – affinchè siano vocazioni buone, orientate cioè al bene comune. In questo ci sentiamo molto vicini alle idee e alla testimonianza di Adriano Olivetti e di Paolo Volponi. Crediamo sia necessario investire e mettere al centro tre dimensioni: il lavoroperlapersona, la virtù liberatrice – come la chiamava Olivetti – della cultura, la bellezza e l’arte. Sono tre dimensioni profondamente intrecciate e generative. Sono dimensioni che possono rendere umano il nostro percorso di crescita. Nell’impegno della Fondazione le troviamo sempre. Le nostre iniziative educative, culturali e di ricerca – anche quelle per gli adulti e per i ricercatori che frequentano la nostra Summer School – sono costruite curando con attenzione che siano capaci di testimoniare questi tre ambiti.

Qualche parola ancora sulla cultura. Cosa significa per voi?

Cultura per noi significa lavorare su una risorsa chiave per l’uomo e per la democrazia: il pensiero critico. Ossia, sviluppare la virtù del rimanere sempre liberi. È il valore più forte che traggo da molte pagine di Paolo Volponi, oltre che dalla sua vita. Ricordo per esempio la storia di Albino Saluggia, protagonista di Memoriale. Una storia di libertà. Una storia che assegna valore al non accontentarsi, al voler andare oltre. Quella di Paolo Volponi è una testimonianza da recuperare in un’epoca in cui prevale l’indifferenza e una cultura omologata. Sostenere lo sviluppo del pensiero critico però ha i suoi costi, ma sono i costi benefici della democrazia e non possono essere tagliati, sacrificandoli sull’altare dell’efficienza in cui si annida la tentazione del potere nelle mani di pochi, una scorciatoia che ancora rassicura molti. Semmai vanno accresciuti ed estesi mutandone il segno, perché costituiscono l’investimento più redditizio per il vivere civile.

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