Blog EllePì – L’Italia non è un Paese per giovani (e capaci)

di Fabrizio Maimone

maimoneL’Italia non è un Paese per giovani. In una intervista del 28 febbraio di quest’anno, pubblicata dal Messaggero, Carlo Carboni ha evidenziato i limiti strutturali che affliggono la Società italiana, che non riesce a premiare le competenze e il merito e a garantire il necessario ricambio generazionale delle classi dirigenti. La Pubblica Amministrazione, le banche, le grandi imprese, le università, le professioni, il variegato e talvolta poco trasparente mondo del terzo settore possono essere letti come sotto-sistemi per lo più gerontocratici, che si basano su legami di appartenenza/affiliativi e meccanismi di tipo cooptativo.  Questo fenomeno è allo stesso tempo una delle cause  e una conseguenza della scarsa mobilità sociale. Ai tempi del mai dimenticato film capolavoro di Nanni Loy, Mi manda Picone, una raccomandazione tutto sommato non la si negava a nessuno, era a suo modo democratica.

Purtroppo, l’Italia degli inizi del ventunesimo secolo si è involuta in una sorta di mondo post- feudale, dove il potere e il lavoro, come ai tempi dei Principi e delle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri, si tramandano per eredità e per casta.  Secondo Carboni, manca un meccanismo che assicuri il necessario ricambio della classe dirigente nel nostro Paese: per questo la circolazione delle elite, per dirla con Pareto (1916), avviene attraverso colpi di mano occasionali. Ogni tanto i figli si prendono con la forza il posto dei padri, e non lasciano più la poltrona, fino al push successivo. E’ un fenomeno trasversale: le università, i ministeri, le banche, i giornali, i grandi gruppi industriali negli scorsi decenni sono stati occupati manu militari dalla generazione dei baby boomer.  Mi permetto di aggiungere all’analisi di Carboni, che questo fenomeno avviene anche grazie alla collaborazione di molti quarantenni e cinquantenni che sono stati cooptati dalle elite e che, per mantenere la rendita di potere, sono diventati più realisti del re, assumendo il ruolo di migliori (o peggiori, a seconda dei punti di vista) difensori dello status quo. Per questi motivi, afferma Carboni, la pur apprezzabile nouvelle vague di ringiovanimento della classe politica non sembra fino adesso aver prodotto effetti significativi nella stessa Società che la predetta classe politica dovrebbe rappresentare. E’ mancato, cioè, fino adesso un processo di contagio positivo,  che favorirebbe l’auspicato ricambio della classe dirigente.

Pier Luigi Celli, in un contributo di Discussioni, ha sottolineato come il sistema produttivo disincentivi, de facto, il lavoro giovanile. Si evidenzia, quindi, un vero e proprio problema di giustizia generazionale, come ha sottolineato Alice Felci in sua analisi sempre per Discussioni. Le conseguenze di questo paradosso sono state descritte da una recente inchiesta dell’Espresso:  sempre più giovani (brillanti) laureati trovano lavoro all’estero. Infatti, un sistema bloccato, che non lascia spazio alle nuove generazioni, favorisce la cosiddetta fuga dei cervelli. Nel contempo, il nostro Paese fa fatica ad attrarre dall’estero personale altamente qualificato e a far rientrare in Italia e/o creare reti di scambio e cooperazione con i nostri talenti espatriati. Quindi, esportiamo più “cervelli” di quanti ne importiamo: il bilancio che misura i flussi di capitale umano in entrata e uscita nel nostro Paese è in rosso.

In un contributo di Discussioni e successivamente in un articolo pubblicato dall’inserto economico di “Conquiste del lavoro” ho provato a dimostrare che il tanto discusso brain drain è soprattutto la conseguenza di una disfunzione di sistema. Il nostro Paese non premia la competenza e l’impegno nel lavoro. Offre poche opportunità di impiego nei settori a elevato capitale intellettuale, come la ricerca e lo sviluppo, l’educazione, la formazione, le produzioni high tech, le professioni creative. E non è in grado di remunerare in maniera adeguata, tranne alcune eccezioni, le attività ad alto capitale intellettuale, che sono spesso anche quelle più esposte a fenomeni di sfruttamento, più o meno marcato, come è stato denunciato recentemente da una campagna virale, molto colorita ma efficace, proposta da un gruppo di giovani creativi, stanchi di “lavorare per la gloria”.  Il mancato ricambio della classe dirigente è uno dei fattori che incidono negativamente sul fenomeno. Una classe dirigente sempiterna e virtualmente inamovibile ha poco interesse a favorire i processi di innovazione, prosciugando l’acqua in cui nuota. E, quindi, ad alimentare la domanda interna di capitale umano ed intellettuale.  Di conseguenza, studiare e specializzarsi non aiuta, almeno in tempi brevi, a trovare un lavoro e fare carriera, come ha sottolineato anche Gabriele Gabrielli in un suo recente contributo su Discussioni. Anzi, troppo spesso quello troppo bravo, con buona pace della retorica sui talenti aziendali, è visto come uno che non si “integra” nel sistema e, quindi, è  poco “gestibile”. E, quindi, si preferisce assumere il candidato sponsorizzato, anche se meno capace, perché è più controllabile e, quindi, rassicurante. Questo meccanismo di cooptazione per meriti “negativi” è stato descritto da Pier Luigi Celli (2008), in un suo libro che ha fatto molto scalpore.

Il problema della bassa domanda di personale qualificato è stato affrontato negli ultimi anni, de facto, applicando una logica paradossale: visto che il nostro sistema produttivo è arretrato e non è in grado di assorbire  personale con alta specializzazione, riduciamo il numero di laureati e trasformiamo il nostro Paese in una nazione di operai specializzati, camerieri e idraulici. Siamo una delle poche Nazioni avanzate al mondo in cui, in tempi di crisi, si riduce il già esiguo investimento in capitale umano (si veda l’ultimo rapporto OCSE). Questa logica, che fa il paio con la ben nota affermazione “con la cultura non si mangia”, è assolutamente demenziale. Siamo la patria del Rinascimento, delle belle arti, della musica e del bel canto, di Dante, Leonardo, Pirandello, Marconi e Fermi. Cancellare la nostra storia e identità, per trasformarci in un innaturale ibrido tra la Florida e la Val Brembana, sarebbe un vero e proprio suicidio collettivo, che però di fatto è in atto, come è dimostrato dalle statistiche sconfortanti sul calo di immatricolazioni nelle università italiane. Occorre invertire la tendenza, accettando l’ovvia verità che il modello “produttori per conto terzi della Germania”, che ha fatto (anche per ragioni di prossimità geografica) la ricchezza di alcune aree industriali del Nord Italia, non può essere applicato automaticamente a tutto il Paese, da Pordenone a Canicattì. E che le economie più dinamiche, a partire da quella USA, basano il proprio sviluppo su un mix di attività produttive vecchie e nuove e investono sulla ricerca e lo sviluppo, sull’innovazione e sulla capacità di fare quella che una volta si chiamava “egemonia culturale”. Tutte attività ad elevato capitale intellettuale e umano. E che richiedono il contributo di giovani di talento.

Costruire un mercato del lavoro più giusto, equo e inclusivo (non solo) per i giovani talenti, significa creare le precondizioni per una vera crescita della competitività. Non si tratta solo di una questione di regolazione del mercato di lavoro. Ma innanzitutto di un cambiamento culturale, che richiede (anche) un rinnovamento della classe dirigente.

 

Per approfondire

AA VV (2012), Brain Drain, Brain Exchange e Brain Circulation. Il caso italiano nel contesto globale. Aspen Institute Italia;

OECD (2013), Education at a Glance 2013: OECD Indicators, OECD Publishing.

Beltrame L. (2007), Realtà e retorica del brain drain in Italia. Stime statistiche, definizioni pubbliche e interventi politici, Quaderni Dipartimento Di Sociologia e Ricerca Sociale, N. 35, Università di Trento;

Carboni C. (2008), La società cinica. Le classi dirigenti italiane nell’epoca dell’antipolitica, Laterza, Bari;

Celli P. L. (2008), Comandare è fottere. Manuale politicamente scorretto per aspiranti carrieristi di successo, Mondadori Milano;

Florida R. (2006), La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chi perde, Mondadori, Milano.

Pareto W. (1964), Trattato di sociologia generale, Edizioni Comunità, Milano.

 

Profilo dell’autore

Fabrizio Maimone ha un dottorato di ricerca in scienze della comunicazione e organizzazioni complesse e un master in gestione e sviluppo delle risorse umane. E’ professore a contratto presso l’Università LUMSA e docente presso la LUISS Business School. Ha insegnato presso Master e scuole di alta formazione ed è stato visiting fellow presso l’Università di Canberra. Tra l’altro, ha svolto ricerca sull’evoluzione dei modelli e delle relazioni organizzative nei contesti “glocali”, sulla nascita e l’evoluzione delle culture organizzative “cosmopolite”, sul management interculturale, sulla comunicazione e la gestione della conoscenza nelle organizzazioni transnazionali. Consulente di direzione, opera in Italia e all’estero nel campo della formazione manageriale, della comunicazione interna, del cambiamento organizzativo, dell’apprendimento organizzativo e del management interculturale. Tra le sue pubblicazioni più recenti, i volumi “Change management. Nuovi modelli di gestione del cambiamento organizzativo, sostenibilità sociale, efficacia manageriale.”, Franco Angeli (in stampa), “La comunicazione organizzativa”, Franco Angeli, Milano, 2010 e , insieme a Marta Sinclair, l’articolo “Dancing in the dark. Creativity, knowledge creation and (emergent) organizational change.”, Journal of Organizational Change Management, vol. 27, n. 2, 2014.

 

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