Blog EllePì – Abbiamo bisogno di relazioni forti e non mediate per prenderci cura direttamente dell’altro
di Gabriele Gabrielli
La paura dell’altro è una dimensione che sperimentiamo quotidianamente. Nel quartiere dove viviamo, negli ambienti di lavoro, quando guardiamo la televisione o ascoltiamo la radio, mentre siamo in macchina e ci fermiamo a un semaforo. Proviamo un misto di pudore e vergogna nel confessarlo, ma il timore c’è. Temiamo che l’altro, il diverso da noi, possa farci male e offenderci in qualche modo. Per esempio, non considerando in modo adeguato le nostre capacità, oppure facendo carriera più velocemente di noi; o ancora destabilizzando l’equilibrio costruito e su ci siamo adagiati. Come riescono a fare le nuove generazioni che ci creano profondo disagio. Sono lì che guardano, bussando alla porta di un benessere che si allontana e che costringe a rivedere al ribasso molte aspettative.
Viene voglia di scappare dall’altro, allora, cercando vie di fuga e uscite di sicurezza. Costruiamo così artefatti per limitare il contatto con le persone. Se poi è proprio inevitabile, lo facciamo di striscio annacquando le nostre relazioni e chiedendo l’assistenza di un mediatore. Può essere lo stato, il mercato e le sue manifestazioni, i contratti, la gerarchia e i capi, la rete e le sue invenzioni. Sono numerosi, infatti, gli strumenti che usiamo per evitare il “faccia a faccia” con l’altro, che ci infastidisce e preoccupa. Più o meno consapevoli, siamo spinti in questa direzione da una sfiducia che trova alimento in una visione dell’uomo come pericolo, minaccia, “ferita” e non come occasione di sviluppo e riconoscimento.
Le relazioni, in effetti, sono sempre più spesso mediate da una qualche “verticalità” a cui ci appelliamo per scrollarci di dosso la fatica dell’altro. Malgrado l’apparenza, c’è scarsa “orizzontalità” in questa epoca mediata. Le occasioni di confronto e discussione, quelle in cui si guarda l’altro negli occhi, non sono così numerose. Le amicizie diventano virtuali. Gli esami, nelle scuole e nelle università, sono sempre più spesso in forma scritta. Parlare con un impiegato dell’impresa da cui hai acquistato un prodotto – anche solo al telefono – diventa un defatigante e frustrante gioco dell’oca. Nascondiamo l’altro ai nostri occhi.
Non è solo l’effetto dell’innovazione che crea efficienza e di quel progresso che, assicuratoci dalla ricerca e dalla tecnologia, ci potrebbe far vivere meglio. Dietro tutto questo c’è un’antropologia rattrappita che genera un individualismo presuntuoso e pavido. Presuntuoso, perché fondato sulla menzogna dell’uomo pensato come “assoluto”, che non ha bisogno di riconoscere alcuno al di fuori di sé. Pavido perché, tutto proteso a nascondere la fragilità di cui siamo impastati, è incapace di soffrire e crescere nelle relazioni da cui fugge. Così ci aggrappiamo alla fredda rassicurazione che ci offre l’ostentazione delle cose e il consumismo. E a quella di molti altri idoli che confezioniamo su misura, come l’eterna giovinezza e bellezza. Negli ambienti di lavoro, per evitare l’altro, ci appoggiamo alla comoda sponda di qualche capo con cui piagnucoliamo l’incompetenza del collega che non merita una nostra attenzione diretta. Ci lamentiamo spesso di essere poco considerati, ma poi siamo i primi a non cercare feedback – che possono ferirci – e a non darli. Ci affidiamo, sempre più numerosi, alla soporifera potenza incantatrice del web e dei ‘conformisti’ social network che ci assegnano il potere di creare e annullare amicizie a nostro piacimento. “Mi piace, non mi piace”, è il simbolo più potente di questa nuova ideologia del fare da soli, senza l’altro.
Non che le relazioni mediate non abbiano un senso e una loro utilità, ma rimangono pur sempre relazioni deboli. Non possono dunque diventare la modalità primaria per vivere la nostra umanità fatta di socialità, riconoscimento e reciprocità. Altrimenti rischiamo di entrare nel “triste scenario” – sono parole dello scrittore statunitense Jonathan Franzen – “di un’umanità tecno-narcotizzata, che si sente viva solo perché consuma senza interruzione live news che tra tre minuti non conteranno più niente …”.
Vivere l’esperienza umana ha a che fare invece con ‘relazioni forti’ fondate sull’apertura e il confronto, quelle proprie di una communitas dove si è uniti agli altri da un “dovere” che non ci rende interamente padroni di noi stessi. Nella communitas – dove c’è l’ambiguità del munus, cioè del dono che obbliga – siamo forzati, scrive Roberto Esposito, a uscire da noi stessi. Spinti quasi un po’ a svuotarci per far crescere quella responsabilità di ogni cittadino di cui c’è tanto bisogno in questa società sempre più narcotizzata da “solventi”, scrive in queste pagine Luigi Alici. Abbiamo bisogno invece di una visione che valorizzi lo stare insieme come strumento per costruire “il senso di una storia condivisa”; solo da qui possono nascere quei comportamenti di tipo “orizzontale” sempre più necessari in quest’epoca – e richiamati da un illuminante editoriale di Luigino Bruni – che testimoniano la “cultura del prendersi cura dell’altro direttamente”.
E’ il tempo della responsabilità di tutti, senza mediatori, senza fughe, senza solventi.
Riferimenti
Alici L., “Generazioni in dialogo tra ‘solventi’ e ‘collanti’”, in Discussioni EllePì, 2012
Bruni L., La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane, Il Margine, Trento, 2007
Bruni L., L’ethos del mercato, Bruno Mondadori, Milano-Torino, 2010
Bruni L., “Compagni di cordata”, in Avvenire, 7 dicembre 2011
Esposito R., Communitas, Einaudi, Torino, 2006
Farkas A., “Franzen contro Bloom: il canone è maschilista”, in Corriere della Sera/La Lettura, 12 marzo 2012
Mauss M., Saggio sul dono, Einaudi, 2002
Profilo dell’autore
Gabriele Gabrielli è Presidente della Fondazione Lavoroperlapersona e docente di Organizzazione e gestione delle risorse umane all’Università LUISS Guido Carli. E’ anche Direttore del programma Executive MBA della Luiss Business School. Formatore e coach, i suoi ambiti di attività riguardano la consulenza e ricerca nel campo dello sviluppo organizzativo, leadership e risorse umane. Tra i suoi volumi più recenti ci sono Post–it per ripensare il lavoro, Franco Angeli, Milano 2012; People management, Franco Angeli, Milano 2010.