Che si associ l’atto di cura ad una precisa e determinata figura professionale, non è affatto scontato. Lo è per noi, abitanti della società globale e complessa, che, per virtuosa necessità, abbiamo fatto della cura anche un lavoro. Non lo è stato per le età che ci hanno preceduto: la storia della medicina, accanto a quella della tecnica, ce lo testimonia. È allora nel contesto degli ultimi secoli che la “sanità”, fenomeno e pratica socio-politica, si è imposta come garante tanto della sopravvivenza quanto della “sana vita” di ogni cittadino. Il motore di questa enorme istituzione è composto da una rete di molteplici professionalità: medici, infermieri, farmacisti, ma anche operatori socio-sanitari, educatori e volontari. A tal proposito, dunque, riteniamo, come Fondazione Lavoroperlapersona, che la testimonianza diretta di “professionisti della cura” sia fondamentale per prendere coscienza non solo dei problemi di malasanità (che purtroppo pervasivamente colpiscono la nostra penisola) quanto, soprattutto, per ascoltare e condividere senso, significato e vittorie, ma anche difficoltà e crisi, di persone e professioni che agiscono nel cuore e per il cuore di un sistema sociale. Ancor di più se, eletti a eroi durante la pandemia da Covid-19, sono stati poi fugacemente dimenticati.
La Fondazione Lavoroperlapersona ETS è lieta di pubblicare il reportage a puntate dal titolo "Quale cura per il lavoro di cura? Storie di salute, diritti e lavoro" realizzato da Valentina Brini e Annalise D'Egidio nell'ambito della collaborazione con la Scuola di Reportage e Fotografia Jack London.
L’ultimo rapporto GIMBE sul SSN1 mette nero su bianco le proporzioni della carenza di personale infermieristico nel nostro Paese. Una situazione già di per sé critica, che appare ancor più allarmante se confrontata con i dati degli altri Paesi dell’area OCSE. In Italia si contano mediamente 6,5 infermieri ogni 1 000 abitanti, cioè poco al di sopra di Spagna (6,2) e Polonia (5,7) e non così distante da Ungheria (5,5), Lettonia (4,2) e Grecia (3,9). Le più virtuose sono Svizzera, Norvegia e Islanda: i nostri vicini elvetici, con ben 18,5 infermieri ogni 1 000 abitanti, ci superano addirittura di tre volte. Siamo dunque ben al di sotto sia della media OCSE (9,8) sia di quella dell’Unione Europea (9). Ma non è tutto. Se si considera il rapporto tra medici e infermieri, l’Italia scivola ancora più in basso, superata da Polonia, Ungheria e Lettonia. Magra consolazione: evitiamo per poco l’ultimo posto. Il dato resta comunque allarmante, giacché il nostro rapporto infermieri/medici è di appena 1,5, a fronte di una media OCSE di 2,6 e una media UE di 2,4. A peggiorare ulteriormente il quadro si aggiungono i salari. Secondo i dati disponibili, riferiti ai soli infermieri dipendenti da strutture pubbliche ospedaliere e calcolati in termini lordi, a parità di potere d’acquisto, la retribuzione italiana media ($ 48 931) risulta inferiore di almeno 10 000 dollari annui rispetto sia alla media OCSE ($ 58 395) che a quella UE ($ 57 040). È questa la necessaria premessa da tenere a mente per contestualizzare quanto, in quasi due ore di fitta conversazione nel giardino di casa sua, ci racconterà Pasquale. Sebbene i suoi quasi due metri d’altezza lo rendano una presenza che non passa inosservata – imponente ma nient’affatto minacciosa –, ciò che si è impresso più vividamente nella mia memoria sono alcune metafore e immagini ricorrenti del suo modo di esprimersi. È per questo che ho scelto di riprenderle, usandole come segnavia per orientarmi lungo i primi dieci anni, ricchi di svolte e cambiamenti, della sua carriera professionale. Un primo discrimine fondamentale è rappresentato dal vincolo contrattuale e, dunque, dalla differenza quintessenziale tra la libera professione e il lavoro dipendente (a termine) in ospedale. «Ho iniziato a lavorare subito dopo la laurea, nel 2017. Ero un interinale per l'USL dell'ospedale principale della zona: non ero padrone della mia vita lavorativa, ma sottoposto a logiche e tempi stabiliti dall'alto. Il caso ha voluto che fossi assegnato allo stesso reparto in cui avevo svolto il tirocinio l’anno prima: Medicina Oncologica. Pur trattandosi di un contesto estremamente delicato, era considerata una delle punte di diamante della struttura: si lavorava davvero bene. Lì ho imparato una lezione fondamentale per preservare la mia vita personale: lasciare in reparto ciò che accadeva durante il turno. Ci ho lavorato per un anno, e conservo molti bei ricordi. Tra questi, alcuni pazienti allo stadio terminale, che nonostante tutto trovavano la forza di sdrammatizzare. Qualcuno mi chiedeva perfino di accendergli una sigaretta. Ovviamente non gliela negavo. Come avrei potuto?» Il rapporto di lavoro subordinato che lo lega all’ospedale si protrae per un altro anno e lo vede in forza al reparto di Ortopedia, che però valuta in tutt’altro modo. «Cattiva organizzazione, tutto molto nebuloso. Sono andato in sofferenza, nonostante il mio amore viscerale per questa professione. Così, insieme a un collega, abbiamo deciso di aprire la partita IVA e lavorare per il 118 in giro per l’Italia. Stavo finalmente realizzando il mio sogno: la medicina di emergenza-urgenza è sempre stata il mio pallino. Mi annoio facilmente, e la vita di reparto finiva per opprimermi. Troppa gerarchia, troppi equilibri di potere. A mio avviso, un vero e proprio ginepraio che scoraggia l’innovazione. Dominano rigidità e la logica del “si è sempre fatto così”. Provare a cambiare approccio? Fuori discussione. Almeno finché sono rimasto nel pubblico, anno Domini 2023, la risposta era sempre la stessa: ‘Se non ti sta bene, lì è la porta!».
Probabilmente, se non avesse conosciuto la moglie, Pasquale avrebbe proseguito la sua attività da libero professionista. Da autonomo, si erano allineati tutti gli elementi che gli davano soddisfazione: l’adrenalina della medicina d’urgenza, l’esperienza nel suo campo d’elezione e, non da ultimo, la possibilità di viaggiare – una media di 60 000 chilometri l’anno. Verona, Vicenza, la riviera romagnola... addirittura quindici giorni di navigazione nel mare Adriatico, a bordo di una nave equipaggiata con un prototipo sperimentale del Politecnico di Torino, progettato per ricavare energia dal moto ondoso. La decisione di mettere su famiglia lo porta a rivedere le sue priorità, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra vita e lavoro. Di qui la scelta di partecipare a un bando di selezione per infermieri da destinare al reparto Emergenza-Urgenza, indetto dalla stessa USL per cui aveva già lavorato in passato. Ciò che accadrà all’indomani dell’assegnazione – prima presso il pronto soccorso di un piccolo ospedale della zona (2020-2022), poi in una seconda struttura, più grande, riaperta per motivi politici dopo la chiusura durante la pandemia (2022-2023) – rappresenterà uno snodo decisivo nella vita di Pasquale. E, al di là della sua vicenda personale, offre spunti significativi sulla gestione della sanità pubblica, ispirati – come lui stesso sintetizza con lucidità – al «solito gioco delle tre carte, imposto dalla deleteria indissolubilità del legame tra amministrazioni regionali e direzioni generali ospedaliere».
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Ancor prima della diffusione delle piattaforme di intrattenimento on demand, le serie TV – soprattutto quelle nordamericane – riscuotevano già un grande successo di pubblico. Tra le più popolari negli anni dell’adolescenza di Pasquale (lo ricordo bene, dato che siamo più o meno coetanei), c’era E.R. – Medici in prima linea, un medical drama ambientato nel pronto soccorso di un grande ospedale della contea di Chicago. Come più tardi Grey’s Anatomy, Dr. House e molte altre, contribuì a diffondere un’immagine idealizzata della vita di corsia, trasmettendo al pubblico l’idea di un continuo alternarsi di casi straordinari e storie avvincenti. La realtà, però, è decisamente più prosaica: non di rado, il lavoro di chi si occupa di medicina d’urgenza consiste in notti trascorse ad attendere una chiamata, oppure nel gestire comportamenti aggressivi da parte di persone con dipendenze, che frequentemente si rifugiano in pronto soccorso in cerca di un riparo per la notte. Il fatto stesso che non esistano soluzioni alternative adeguate per supportare questa particolare tipologia di utenza meriterebbe un’attenta riflessione.
Ciò detto, la situazione conferma ancora una volta che i pronto soccorso sono il “canarino nella miniera” dello stato di salute complessivo dei servizi di assistenza territoriale. Non è affatto vero, comunque, che la professionalità si misuri in base al numero di codici rossi gestiti. Anzi, direi piuttosto il contrario: spesso, in contesti non segnati da calamità o conflitti, l’eroismo si manifesta nella ripetizione silenziosa di tanti piccoli – e talvolta meno piccoli – atti virtuosi. Tra questi, inserirei senz’altro la capacità di sopportare condizioni di lavoro altamente stressanti, senza il supporto di un reparto strutturato. Pasquale mi fa un elenco, ordinato per grado crescente di pericolosità: al livello base c’è la sala d’aspetto del pronto soccorso; segue un livello intermedio, rappresentato dall’automedica o dall’ambulanza; infine, il massimo livello di esposizione: la strada o l’abitazione del paziente. Il criterio di assegnazione su questa “scala di vulnerabilità” è dato dalla distanza dalla zona di comfort, definita da due elementi: la superiorità numerica degli operatori sull’utenza e la possibilità, tutt’altro che remota, di incorrere in minacce all’incolumità personale. «Ogni intervento in esterna è una sorpresa. Se c’è bisogno di richiedere il supporto delle forze di pubblica sicurezza, lo si scopre solo una volta arrivati sul posto. Se sei per strada e ci riesci, puoi chiuderti in auto. Se invece ti trovi all’interno di una casa che non conosci, allora lì te la devi giocare. E puoi solo sperare che quel giorno ti vada bene.» Prendo in prestito un’altra sua espressione: «Oggi il lavoro da libero professionista mi consente di spendermi come voglio col paziente. Di stare dentro al processo della cura, accompagnandolo in ogni fase, compresi gli ordini per il riassortimento delle scorte. Ne trae vantaggio il paziente e, di riflesso, ne sono soddisfatto io». Se pure estrapolate da un contesto diverso, le sue parole condensano perfettamente il senso profondo di una professione in cui il contatto umano rappresenta una base imprescindibile. Si tratta in buona percentuale di un contatto fisico ravvicinato: gesti, manovre, somministrazioni che presuppongono la fiducia del paziente, un certo suo abbandonarsi: af-fidarsi e con-fidare. Tuttavia, proprio a causa della prossimità fisica, specialmente in spazi ristretti o sovraffollati, il contatto può facilmente degenerare e tramutarsi nel suo contrario: lo scontro e la violenza. «Personalmente, probabilmente grazie alla mia stazza fisica, finché ho lavorato in pronto soccorso non ho mai subito aggressioni. Sono stato testimone di un pugno sferrato a un collega dal parente di un paziente in sala d’aspetto, preso dalla frenesia di sfogarsi col primo malcapitato per il protrarsi dei tempi d’attesa. Si lavora costantemente sotto pressione, tanto che la maggior parte dei miei ex colleghi è in perenne affanno. Quasi in ogni turno mi toccava ripetere all’utenza: “Chi aspetta è perché può aspettare. Se vedete entrare qualcuno ed essere portato direttamente oltre la porta divisoria vuol dire che ha la precedenza assoluta, perché non può aspettare”. Non tornerei mai e poi mai in ospedale. Oramai ho fatto le mie scelte, ma non nego che l’emergenza-urgenza mi manchi molto.»
Tutto si consuma nell’arco di poco più di un anno: da un singolo episodio – peraltro di modesta entità – prende avvio una catena di eventi. Come una valanga che, rotolando a valle, s’ingrossa mano a mano, si giunge ad un processo, che si conclude con un’assoluzione. Solo in apparenza un lieto fine: a rigore, sarebbe più corretto definirla una classica “vittoria di Pirro”. Sorprendentemente, dato il luogo in cui si svolge, l’esposizione dei fatti richiede molto meno tempo del racconto delle sue conseguenze. Accade che un’anziana affetta da demenza senile, già nota agli operatori, venga trasportata in pronto soccorso per uno stato di agitazione non più gestibile dalla badante che abitualmente la segue. Il medico chirurgo di turno, coadiuvato da Pasquale, è impegnato in quel momento in una procedura ben più delicata su un’altra paziente. Tuttavia, il vociare proveniente dall’accettazione spinge Pasquale a intervenire. D’accordo con il medico, e dopo aver constatato che la situazione può essere gestita in tranquillità, somministra alla donna una prima terapia. La paziente si calma e tutto sembra rientrare. L’arrivo della badante però riaccende la tensione: a quel punto, a gridare sono in due. Nel tentativo di placare gli animi, interviene anche il medico che, mentre Pasquale si occupa dell’anziana, prova a spiegarsi con la badante, convinta che all’anziana non siano state date le dovute attenzioni. Ma ogni tentativo si rivela vano, al che il medico, prendendola per i polsi, la invita garbatamente a sedersi e ad ascoltare. Nel giro di poco, la situazione torna alla calma. Tuttavia, a una settimana di distanza, la badante sporge denuncia contro il medico per lesioni, minacce e violenza privata. L’azienda ospedaliera, a sua volta, apre un procedimento disciplinare e – dopo aver ascoltato anche i testimoni presenti, tra cui naturalmente Pasquale – decide di applicare una trattenuta sulla busta paga del chirurgo, accompagnata da una nota scritta di demerito. Il medico, indignato soprattutto per la macchia inferta alla sua reputazione, si rivolge al tribunale competente. Constata l’impossibilità di una conciliazione tra le parti, il giudice ascolta tutti i testimoni per due volte e dà ragione al querelante. La sentenza condanna infatti l’azienda al pagamento delle spese legali, impone la restituzione dell’importo trattenuto, la cancellazione della nota di demerito e, previo benestare del medico stesso – nel frattempo dimessosi –, dispone il suo reintegro in organico. A quindici giorni dalla conclusione del processo, questi rientra in servizio e Pasquale sostiene la prova orale di un concorso per l’assunzione a tempo indeterminato presso la USL, che anche noi abbiamo ormai imparato a conoscere.
1 Si veda il 7o Rapporto GIMBE sul Servizio Sanitario Nazionale, in particolare il Capitolo 7, Il personale sanitario, pp. 124-128. Il rapporto è consultabile gratuitamente (previa registrazione) sul sito della Fondazione GIMBE: https://salviamo-ssn.it/attivita/rapporto/7-rapporto-gimbe.it-IT.html.
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